“Chi parla male, pensa male e vive male. Bisogna trovare le parole giuste, le parole sono importanti!”, diceva Nanni Moretti in Palombella Rossa.
Il linguaggio inclusivo non discrimina nessuno e rappresenta il maggior numero di persone possibili. Questioni di genere, disabilità, etnia, orientamenti sessuali: tutto ciò che chiamiamo “diversità” (nel senso di pluralità, varietà) può e deve essere rappresentato dal linguaggio.
Alcuni esempi: le donne che chiedono di declinare al femminile i ruoli professionali (avvocatessa, Direttrice, medica…); le persone non binarie, che si sentono rappresentate dallo schwa (la e capovolta alla fine delle parole, che supera il binarismo maschile – femminile); le persone con disabilità, che chiedono una rappresentazione non stereotipata di loro stesse. In un servizio pre pandemia raccontavo di Lulù Rimmel, giovane musicista che si esibisce con capelli colorati di lilla, corpetti e pizzi sexy… in carrozzina… o Simone Pedersoli, che si autodefinisce influencer di positività sui social, anche lui in carrozzina…
Raccontarli con un sentimento di pietismo attraverso la lente delle loro disabilità sarebbe stato non solo miope, ma delirante. Prima di una disabilità, che è una caratteristica, c’è la persona. E per descrivere la persona, c’è il linguaggio, che deve essere aggiornato, in modo tale da rappresentare una società fluida, complessa, in movimento. D’altronde la lingua è un insieme di regole e significati in costante evoluzione. E’ importante sperimentare, in questo senso, e non fermarsi, avendo sempre come punto di riferimento il modo in cui l’altro desidera rappresentarsi. Lo schwa, l’asterisco, la chiocciola possono essere poco pratiche da usare, ma sono di certo sperimentazioni inclusive. Dire “persona con disabilità” può essere più lungo che dire “un disabile”. Ma le persone non sono la loro disabilità. Chiamare una donna Avvocatessa, invece che Avvocato, può suonare nuovo, ma perché non declinare al femminile una professione, legittimandola? Perché escludere, discriminare con le parole, anticamera delle azioni?
Lao Tzu, filosofo del VI secolo A.C., fondatore del Taoismo, ha scritto:
“Fai attenzione ai tuoi pensieri,
perché diventano parole.
Fai attenzione alle tue parole,
perché diventano le tue azioni.
Fai attenzione alle tue azioni,
perché diventano abitudini.
Fai attenzione alle tue abitudini,
perché diventano il tuo carattere.
Fai attenzione al tuo carattere,
perché diventa il tuo destino”.
Il linguaggio è non solo una forma di rappresentazione e comprensione del mondo, delle persone e dei sentimenti. Ma rispecchia anche la società, la cultura del momento. Dà forma alla realtà, al nostro mondo interiore, al nostro carattere. Le parole che usiamo condizionano il modo stesso in cui vediamo il mondo. E viceversa.
Concetti come esclusione o uguaglianza, parole come desiderio o autodeterminazione sono importanti per tutti e soprattutto per chi fa parte di una minoranza. Fabrizio Acanfora (divulgatore, scrittore, docente universitario) scrive che alcuni linguaggi mettono in discussione il primato della maggioranza nel decidere della rappresentazione dei gruppi minoritari. Attraverso il linguaggio, in sostanza, avverrebbe anche una redistribuzione del potere. Perché ognuno ha il diritto di decidere come venire definito e deve sentirsi protagonista della narrazione collettiva.
Raccontare i fatti del mondo in modo etico, attraverso una lettura ed un linguaggio consapevole e che tenga conto di una pluralità di punti di vista e modi di sentire, che includa la diversità e la sensibilità di ognuno, si può definire giornalismo consapevole.
Spesso negli articoli e servizi televisivi non trova spazio la narrazione del fallimento come tappa evolutiva, ad esempio. Del procedere lentamente, dell’arrestarsi, dell’avere un altro ritmo. Raramente viene raccontata la disabilità come caratteristica umana, svelandone magari il punto di forza, la potenzialità che porta con sé per scoprire altro. Tutto questo comporta un racconto falsato e non inclusivo della realtà, che poi diventa modello di riferimento senza termini di paragone e che lascia fuori diversi gruppi di persone.
Esiste una narrazione, e dunque un linguaggio, che dà spazio non solo all’inclusività, ma anche all’umanità dell’individuo.
Alcuni caposaldi della Mindfulness (la pratica del prestare attenzione con curiosità e gentilezza all’esperienza nel momento presente) possono venire in aiuto. Affrontare storie e testimonianze con la mente del principiante, ad esempio, lasciando spazio all’emergere non solo del racconto, ma anche delle emozioni che porta con sé. Affidandosi al sentire, più che al pensiero, valutando che spesso può essere mosso da un pregiudizio sull’argomento. Dunque, affrontandolo con non giudizio. Il giornalismo etico e consapevole offre un punto di vista diverso, che va coltivato innanzitutto con se stessi. E’ educandosi ed addestrandosi alla consapevolezza che possiamo guardare, e raccontare, il mondo con altri occhi.
(Estratto dall’intervento sul linguaggio inclusivo del 30 marzo 2023, al Festival della Lingua italiana a Firenze)